Il Codice Deontologico nell’Ambito della Psicologia Forense
A cura di Marco Pingitore.
Articolo pubblicato nell’inserto “Deontologia” della rivista dell’Ordine Psicologi Liguria (2017):
Inserto_Deontologia
Nell’ambito psicoforense lo psicologo è chiamato ad assurgere un ruolo importante e delicato che non può prescindere da un’adeguata e specifica formazione in psicologia giuridica. Basti pensare che la figura dello psicologo forense/giuridico non è regolamentata come, invece, quella dello psicoterapeuta, per cui già subito dopo l’iscrizione all’albo degli psicologi, il professionista può ricevere incarico dalle parti di svolgere attività in qualità di CTP o come CTU dove, in alcune regioni, come la Calabria, non sussistono requisiti minimi per l’iscrizione all’albo dei consulenti d’ufficio.
Ruolo importante e delicato quello dello psicologo forense chiamato ad esprimersi su specifici quesiti peritali le cui risposte, nella maggior parte dei casi, orientano la scelta decisionale dell’Autorità Giudiziaria. Pensando, ad esempio, ai casi di separazione e affidamento in cui il CTU effettua un giudizio psicoforense sulla idoneità genitoriale con eventuali conseguenze molto pesanti sulla responsabilità genitoriale e l’affidamento della prole, ci si può render conto, in linea con ciò che recita l’art. 3 del nostro C.D., di quanto sia importante per il professionista essere consapevole della propria “responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri”.
Ambito psicoforense ben distinto e separato dall’ambito clinico. Spesso e incautamente si ritiene che le competenze esclusivamente cliniche possano rappresentare una garanzia della “tenuta” del professionista in ambito peritale. Benché sia importante per uno psicologo forense possedere un bagaglio di competenze cliniche, è indispensabile mantenere una preparazione e un aggiornamento continuo (art. 5) in riferimento alla cornice teorica e pratica giudiziaria, propria di quel contesto (art. 7), anche con richiamo ai quattro codici vigenti.
Nel momento in cui accetta l’incarico di CTU o CTP, lo psicologo forense è ben consapevole di far ingresso in un conflitto in cui, purtroppo, non vige l’ottica win-to-win, ma, al contrario, come accade alla presenza di minori, sono questi ultimi sempre e comunque a farne le spese. Pertanto, il suo ruolo dovrebbe essere svolto, in linea con l’art. 6, in “condizioni di lavoro che non compromettano la sua autonomia professionale”. Articolo probabilmente sottovalutato, in talune circostanze, poiché non di rado si riscontrano, in ambito peritale, CTP che, sposando le strategie difensive e le ragioni del cliente, non riescono a sviluppare un parere indipendente, appiattendosi ai bisogni del committente. Una collusione pericolosa che fa perdere di vista valore e credibilità professionale, senza pensare ai danni che questo comportamento potrebbe provocare sui minori verso i quali gli stessi CTP dovrebbero rivolgere tutela e protezione. Svolgere l’attività di CTP non significa “essere di parte”, ma di “supporto alla parte”.
Supporto che è possibile fornire solo non compromettendo la propria “credibilità ed efficacia”, in linea con l’art. 26, rifiutando l’incarico di CTP (e, ovvio, anche quello di CTU) nel caso in cui lo psicologo abbia già avuto “precedenti rapporti”, personali o professionali, con una o entrambe le parti. Uno su tutti è il caso in cui lo psicologo accetta l’incarico di CTP, in una consulenza civile per l’idoneità genitoriale, per il padre, dopo aver seguito clinicamente, in un contesto pubblico o privato, la coppia genitoriale qualche anno prima. Purtroppo una prassi scorretta che si riscontra frequentemente.
In conclusione, come non citare l’art. 33 che regola il naturale principio “del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza” tra psicologi. Nell’ambito peritale spesso è presente una conflittualità molto accesa, anche tra i consulenti che, invece, non dovrebbe mai sfociare nell’utilizzo di toni irriguardosi e offensivi nei confronti del Collega.
Contestare la consulenza, non il consulente.

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